sabato 5 novembre 2011

Sviluppo e sovranità



LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E LA FINE DELLA PAX BRITANNICA

In un libricino scritto dallo storico Carlo M. Cipolla, “Piccole Cronache” [1] , pieno di articoletti dedicati ai più svariati argomenti di storia, c’è n’è uno in particolare relativo allo sviluppo tecnico-scientifico della Germania della seconda metà del XIX secolo e dei timori espressi a riguardo dalla allora potenza dominante, l’Inghilterra, un impero in relativo declino che guardava con apprensione ai nascenti competitori mondiali, in primis Germania e Stati Uniti. L’articolo è intitolato “Per la scienza e per il Kaiser. La superiorità intellettuale tedesca preoccupò subito Europa ed USA” [2].
Mezzo secolo prima, agli inizi dell’ottocento, la potenza inglese cresceva esponenzialmente perché il paese aveva dato i natali alla prima rivoluzione industriale (il suo arco cronologico è solitamente compreso tra il 1760-1780 ed il 1830) e quindi, prima di tutte le altre nazioni europee, l’aveva potuta innestare sul proprio tessuto sociale e produttivo; era la rivoluzione che coinvolgeva il settore tessile – metallurgico e comportava l’introduzione della spoletta volante e della macchina a vapore. L’Inghilterra finì per dominare in poco tempo i mercati mondiali con tutte quelle nuove merci figlie di quel grandioso mutamento; la sua crescita e la sua proiezione economica mondiale fu accompagnata dal consolidamento di una poderosa forza militare navale, senza pari, capace di dominare i mari ed aprire a forza i mercati, dove questo fosse necessario; con buona pace di Adam Smith e la supremazia della sua “mano invisibile” e David Ricardo con il primato dei suoi “vantaggi comparati”. Merci e metodi di produzione d’avanguardia, unite ad una potenza militare tecnicamente evoluta finanziata dalle ingenti entrate dovute alla predominanza economica mondiale, insieme alle capacità strategiche della sua classe politica ed a una solida organizzazione statale, assicurarono all’Inghilterra il predominio mondiale per buona parte del XIX secolo: era la pax britannica. Questo momento storico è stato definito monocentrico, un momento storico in cui sulla scena mondiale sembra esserci un unico polo – l’impero inglese in questo caso – nettamente più forte, dal punto di vista politico, economico, militare, delle altre realtà politiche mondiali. Questo momento non è infinito per nessuno, può durare più o meno tempo, ma progressivamente lascia il posto ad una fase policentrica, in cui non esiste più un unico polo centrale ma diversi poli regionali in netta competizione; questo passaggio arriverà anche per l’Inghilterra, come vedremo tra poco.
Le novità della rivoluzione industriale inglese avevano presto cominciato a diffondersi per l’Europa ed in America, anche se l’Inghilterra aveva cercato di mantenere il monopolio della produzione delle merci di pregio e tecnicamente più evolute instaurando rapporti di complementarietà economica, gerarchicamente dominanti, con le altre nazioni più deboli, rapporti di subordinazione che impedivano lo sviluppo dei paesi che si trovavano in condizione di subordinazione e che per rompere questa sudditanza, dovranno ricorrere alla forza per liberare le proprie potenzialità tecnico-scientifiche – industriali e liberarsi dalla morsa soffocante del centro imperiale.
Se in Inghilterra la prima rivoluzione industriale era sorta spontaneamente, dopo una lunga gestazione, ed era stata alimentata dall’iniziativa privata, in altri paesi lo Stato avrebbe dovuto dare contributi maggiori e spesso determinanti per tenere il passo, sempre da inseguitori, del ritmo incessante dello sviluppo inglese.
Dopo la metà del XIX secolo, le cose cominciarono lentamente a cambiare per l’Inghilterra, la sua “posizione di officina del mondo divenne sempre più precaria e la concorrenza tedesca si fece sempre più pericolosa in un mercato dopo l’altro“. [3]
In questo periodo storico, in particolare dal 1870-1880 si fa, non a caso, cominciare la seconda rivoluzione industriale, con l’introduzione dell’elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio. “La caratteristica che differenziava maggiormente la seconda rivoluzione industriale dalla precedente stava nel fatto che le innovazioni tecnologiche non erano il frutto di scoperte occasionali ed individuali, come era stato in Inghilterra, bensì di ricerche specializzate in laboratori scientifici e nelle università finanziate dagli imprenditori e dallo stato per il miglioramento dell’apparato produttivo“. [4]
Non a caso il fattore che più preoccupava gli osservatori inglesi mentre guardavano alla Germania dell’ultimo quarto del XIX secolo – quella Germania che era stata unificata da Bismarck e forgiata dalla sua Machtpolitik – erano le solide basi sistemiche di questo poderoso sviluppo tecnico-scientifico. I più sottolineavano l’importanza del sistema scolastico di cui la Germania si era venuta dotando. “L’impegno economico nei vari Stati tedeschi per la creazione di un efficiente sistema di scuole tecniche e professionali fu decisamente notevole. L’avvento al trono di Guglielmo II diede un forte impulso al movimento di riforma. L’imperatore era decisamente a favore dell’insegnamento tecnico. Ovviamente tutto ciò produceva un’irritata reazione e disapprovazione nei docenti della vecchia scuola che, come commentava nel 1900 un qualificato osservatore statunitense, “continuano a guardare a chimici, ingegneri ed elettrotecnici come a una sorta di meccanici ma non come a uomini di scienza“. [5]
Ma l’Imperatore andò avanti lo stesso con la sua riforma creando un sistema scolastico senza eguali in Europa e distanziando notevolmente la stessa Inghilterra: “In questa corsa verso un efficiente e diffuso insegnamento tecnico professionale a livello secondario, la Francia aveva fatto del suo meglio per non lasciarsi distanziare troppo dalla Germania e poteva contare a livello superiore sull’ esistenza delle Grandes Ecoles. L’ Inghilterra invece aveva perduto progressivamente terreno“. [6]
All’efficienza e alla bontà di questo sistema scolastico, nel suo rapporto del 1902 a proposito della Germania, “lo U.S. Commissioner of Education, attribuiva gli spettacolari progressi tecnologici dell’economia tedesca. Nel 1840, 154 mila tonnellate di bietole rendevano ottomila tonnellate, cioè il 5 %, di zucchero greggio. Nel 1889, grazie a più raffinati processi scientifici, 12 milioni di tonnellate di bietole rendevano 1 milione e 500 mila tonnellate di zucchero greggio, cioè il 13% . Così non soltanto la Germania non dipende più per lo zucchero dalle Indie occidentali, ma in un anno è arrivata a vendere alla Gran Bretagna zucchero per un valore di 50 milioni di dollari. La produzione di alcool derivato dalle patate è un altro campo assai lucrativo dominato dai tecnologi tedeschi. Il costo della produzione è stato da loro ridotto di circa 25 centesimi americani per gallone. Nel 1866 i tedeschi scoprivano il metodo di produrre artificialmente l’indigo mediante processo chimico. Nella produzione di tale materia erano allora impiegati meno di 40 operai. Oggi vi sono impiegati più di seimila uomini e uno staff di 148 chimici. Venticinque anni or sono, i costruttori di strumenti scientifici di precisione francesi e inglesi erano di gran lunga superiori ai costruttori tedeschi. Oggi la Germania è divenuta il Paese che produce i migliori apparecchi scientifici nel mondo. Il valore delle sue esportazioni in questo campo si avvicina ai due milioni di dollari e questo settore occupa circa 15 mila persone” [7]
Questa corsa della Germania verso un efficiente e diffuso insegnamento tecnico professionale a livello secondario, non sarebbe stato sufficiente a garantirle il rapido sviluppo tecnico-scientifico e a permetterle di agganciare la prima rivoluzione industriale e di cavalcare la seconda rivoluzione industriale, se gli strateghi politici dell’Impero non avessero fatte proprie le idee socio-economiche di Friedrich List, nella prima metà del XIX secolo – opposte a quelle del libero commercio mondiale di ispirazione anglosassone – e non avessero provveduto a rafforzarsi militarmente e politicamente di fronte alla minaccia rappresentata dalla potenza militare dell’Inghilterra, ed in subordine anche della Francia. Grazie a quelle scelte, la Germania cominciò a costituirsi come polo sempre più autonomo ed indipendente capace di dar il via e proteggere il proprio sviluppo. In particolare List, riferendosi sempre alla Germania, sosteneva che lo Stato avrebbe dovuto difendere, anche attraverso dei dazi protezionistici, il mercato tedesco ed in particolare le industrie nascenti, almeno finché non fossero diventate in grado di competere nella libera concorrenza con l’Inghilterra. Da questa consapevolezza erano state poste le basi dello Zollverain e dell’organizzazione giuridica dei grandi gruppi industriali tedeschi organizzati nelle Konzerne; i grandi progressi compiuti dalla scienza tedesca – e successivamente mondiale – nel periodo della seconda metà del XIX secolo, dipesero molto da queste basi di efficace protezione ed integrazione della scienza nel sistema produttivo e dalla capacità di quest’ultimo di valorizzarne nel modo più completo la ricaduta tecnologica, sotto la tutela politica-militare del Reich.
In quegli anni si gettano le basi per i futuri, spettacolari, progressi scientifici della Germania: basti consultare la quantità di premi Nobel per la Chimica, la Fisica e la Medicina, attribuiti a partire dal 1901 (anno della prima consegna) a scienziati tedeschi [8] e all’incredibile numero di scoperte ed invenzioni che avvengono in quel periodo storico in Germania; tutto ciò testimonia la giustezza delle scelte politiche compiute dalla classe dirigente tedesca, almeno nel senso della difesa della propria autonomia. Cosa ne sarebbe stato di una Germania succube dell’Impero Inglese e – lateralmente schiacciata dalla Francia e dalla Russia – impossibilitata a sviluppare una propria autonoma politica industriale fortemente connessa alla propria autonomia politica? Sono anche gli anni che vedono la nascita delle grandi industrie tedesche della BASF, della Siemens, della Bayer e della Hoechst, solo per citarne alcune.
Agli inizi del 1900, la Germania contribuiva ad un 13% della produzione industriale mondiale, anche se i leader della produzione industriale erano gli USA, con un 24% del totale, seguiti dall’Inghilterra (19%), poi la Russia (9%) e la Francia (7%). L’Europa nel suo insieme ammontava ad un 62%.
Come si vede da questi dati, sono gli USA a dominare la produzione industriale mondiale. Questa forza è figlia dei risultati della Guerra di secessione (1861- 1865) in cui il Nord manifatturiero ed avanzato schiacciò il Sud agricolo filo-inglese, complementare, in posizione subalterna, all’economia dell’Impero britannico. Questa guerra, risolvendo la contraddizione con il Sud, acquisiva un valore di rafforzamento dell’ autonomia degli USA dall’Inghilterra. Con la costituzione di un potente esercito e di una potente flotta navale, con il consolidamento delle proprie posizioni sul continente, gli americani si presentano come un forte polo nell’incipiente policentrismo mondiale, dispiegando al massimo il proprio potenziale scientifico, tecnico ed industriale. Dal 1860 al 1890, furono depositati qualcosa come 500.000 brevetti per le invenzioni, una cifra dieci volte superiore a quelli depositati nei precedenti settant’anni. Sono gli anni dei grandi imprenditori – scienziati come George Westinghouse, Thomas A. Edison, Theodore Vail, ma anche della nascita delle grandi industrie come la Standard Oil Company, l’ American Telephone & Telegraph Company, la General Electric, solo per citarne alcune.
In questi decenni di fine XIX secolo, si registrò a livello mondiale un progresso della scienza e della tecnica senza precedenti. Progressi in campo medico, alimentare, chimico, fisico, delle comunicazioni, dei trasporti, della produzione, delle condizioni di vita in generale, furono incredibili ed inimmaginabili fino a qualche decennio prima. Invenzioni spettacolari vedono la luce, dalla lampadina, al telefono, all’automobile. [9] (...)
Alla fine la Germania fu stroncata solo con il ricorso a due guerre mondiale che spazzarono via le sue aspirazioni di potenza rispedendola indietro di qualche decennio (insieme al Giappone e all’Italia), costringendo però l’Inghilterra a lasciare lo scettro agli USA, i veri vincitori del “gioco”.
(...)


L’ITALIA DEL DOPOGUERRA: TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E MONCENTRISMO USA

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti, veri vincitori dei due conflitti mondiali, cercano, per quanto possibile, di non ripetere gli errori commessi dall’Inghilterra. Tentano di contenere in modo più efficace la diffusione planetaria del proprio know how tecnico-scientifico, in particolare custodendo, segretamente, le conoscenze scientifiche e le tecniche decisive nei nuovi settori industriali avanzati e strategici; cominciano ad organizzare in modo sistematico lo spionaggio scientifico ed industriale incrementando gli apparati e le sezioni dei servizi segreti appositamente preparati per tali compiti ; a sostenere, con un poderoso intervento statale, la ricerca e la formazione tecnica e scientifica e scolastica; ad incoraggiare la formazione di grandi aziende nei settori di punta e a più alta intensità tecnologica mantenendone il monopolio a livello internazionale e distruggendo sul nascere qualsiasi azienda estera capace di porre delle sfide su questo terreno – minor importanza, invece, per quei settori considerati maturi e poco strategici ed appartenenti alla passata rivoluzione industriale-; ad attirare le migliori risorse intellettuali del pianeta attraverso il cosiddetto brain drain.
Grazie all’esperienza della guerra mondiale appena terminata, gli USA attuano un piano di sviluppo scientifico senza precedenti, riconoscendo in questo progresso la base imprescindibile di qualsiasi progetto di sicurezza nazionale/potenza mondiale. Non ci si poteva fermare sugli allori, come aveva fatto la Gran Bretagna; la corsa allo sviluppo e al mantenimento del primato è continua e senza sosta, in particolar modo quando davanti hai un avversario indipendente ed autonomo come l’URSS, che ha fatto della modernizzazione e dello sviluppo delle forze produttive il suo cavallo di battaglia. L’esperienza a cui gli americani si rifanno è quella del progetto Manhattan, sviluppata all’interno dei laboratori di Los Alamos, dove fu portata a termine la prima bomba atomica. In quel progetto sono impiegati più di 130.000 persone, costando oltre due miliardi di dollari dell’epoca. Si tratta della prima impresa scientifico – tecnologica di una simile portata e coinvolgimento. Ad operazione terminata con successo e a mente fredda, il governo americano comprende che qualsiasi progetto scientifico – tecnologico di alto livello non si può realizzare senza grandi investimenti economici e senza la partecipazione allargata tra esperti di discipline scientifiche diverse che fino a quel momento non avevano mai lavorato insieme. Questo nuovo metodo di impostare l’attività scientifica prende il nome di big science. La big science presenta enormi ricadute in termini scientifici e in termini economici; è il motore fondamentale dell’innovazione tecnologica, della distruzione creatrice, della ricchezza di una nazione. La base di qualsiasi egemonia e di sicurezza nazionale, all’inverso, deve avere come fondamenta la ricchezza, quindi l’innovazione, quindi la big science.
La terza rivoluzione industriale, alla fine della seconda guerra mondiale, era in essere e germogliavano i semi delle innumerevoli scoperte fatte durante il periodo incandescente delle due guerre mondiali: i nuovi settori di sviluppo erano quelli dello spazio, dell’elettronica, della telematica, dell’informatica, dell’energia. Settori che saranno definiti di “alta tecnologia” – o High tech- e che saranno fortemente connessi con le questioni militari legate alla nuova guerra: la Guerra Fredda.
Infatti, finita la seconda guerra mondiale, il nuovo fronte di guerra è contro l’Unione sovietica. Gli Stati Uniti si trovano militarmente, politicamente ed economicamente a capo dei paesi europei, raggruppati nella NATO e tenuti legati al centro dell’impero da una serie di vincoli militari, politici, ed economici.
Le teorie di Gianfranco La Grassa della ricorsività del capitalismo e delle sue diverse caratterizzazioni, e la teoria della stabilità egemonica di Robert Gilpin, inquadrano efficacemente la posizione che assume l’Italia subito dopo la sconfitta della seconda guerra mondiale e della spartizione di Yalta, in cui il nostro paese è relegato nell’orbita di controllo statunitense. Scrive La Grassa [11] a proposito della ricorsività del capitalismo e della fase monocentrica a guida americana: “In modo sintetico, e certo per il momento un po’ grossolano, denomino le fasi ricorsive, in base al loro aspetto più saliente, monocentriche e policentriche. Le prime si hanno quando un paese a modo di produzione capitalistico dominante coordina il campo capitalistico nel suo complesso; le altre vedono l’accentuata competizione tra alcuni centri, e paesi capitalistici per l’egemonia, o almeno la leadership, sull’intero campo”. Dopo Yalta “gli USA assicurarono, nel “campo” di loro competenza (inclusivo di tutto il capitalismo più avanzato) […] un coordinamento d’insieme reso possibile dall’assetto monocentrico del campo in questione. Nelle fasi monocentriche, tuttavia, permane il conflitto tra agenti capitalistici, pur assai più attenuato e spesso in apparente latenza; sotto sotto, insomma, sobbolle in continuazione quella dinamica che […] Lenin eresse a dignità (eccessiva) di “legge” dello sviluppo ineguale dei vari paesi capitalistici in quanto potenze. Nell’oltre mezzo secolo (di dominio americano sull’Europa, Ndr) di relativa quiete […] si verificarono comunque “piccole” crisi dette recessioni. Dalla predominanza statunitense, in quella fase monocentrica, derivava una certa qual regolazione dell’insieme da parte del centro, regolazione resa possibile dalla relativa complementarietà dei sistemi-paese. […] I paesi capitalisticamente avanzati erano dei sistemi guidati da agenti economici e politici (con il loro corteggio di ideologi) subdominanti, interessati quindi allo sviluppo prevalente di settori in qualche modo integrati a quelli del paese centrale, ma perché complementari ad essi (e non invece fortemente competitivi) in quanto tipici di passate stagioni dell’industrializzazione” [12] . La passata stagione di industrializzazione è evidentemente quella della seconda rivoluzione industriale.
Scrive invece Gilpin [13] : “Gradualmente sono arrivato a una serie di conclusioni di ordine generale: che le multinazionali erano davvero l’espressione dell’espansionismo economico americano e che quindi non potevano essere separate dai più ampi obiettivi di politica estera degli Stati Uniti, che i vincoli di sicurezza fra Stati Uniti ed Europa occidentale avevano molto facilitato questa espansione all’estero delle multinazionali americane e infine che la Pax Americana rappresentava la cornice politica entro cui avvenivano questa attività transnazionali di ordine economico o di altra natura. Le mie posizioni su questi punti furono fortemente influenzate dall’analisi di E.H. Carr [1951] del ruolo avuto dalla potenza inglese nella diffusione del liberalismo economico e del libero scambio nel periodo della Pax Britannica”.
Con l’Italia sconfitta relegata nella sfera d’influenza americana, con una classe politica democristiana che giura fedeltà agli USA – e al Vaticano, un’altra entità capace di influenzare ancora largamente le masse e l’apparato politico DC in un modo che può anche risultare negativo, a volte, per l'autonomia e lo sviluppo della nazione  [14] – è inevitabile, tra le altre cose, che qualsiasi impresa scientifica – tecnica – industriale italiana che minaccia di scombussolare il quadro dei rapporti complementari tra la nostra economia e quella americana, penetrando in quei settori che gli USA considerano di loro esclusiva pertinenza, provochi la reazione non solo degli americani stessi, ma anche di quei settori industriali italiani della seconda rivoluzione industriale – subdominati, dice La Grassa- favoriti o comunque tollerati dal centro imperiale, che vedono sfidato il loro predominio locale da un’industria nascente e potenzialmente capace di portare ad una ristrutturazione complessiva dello scenario italiano, attraverso la schumpeteriana distruzione creatrice [15] , cambiando gli equilibri del potere economico e politico. La Fiat di Giovanni Agnelli diviene il punto di riferimento di questi settori industriali italiani complementari a quelli americani, insieme con la Pirelli e quasi tutta la Confindustria; con il sistema bancario, con al centro Mediobanca, che garantisce l’apertura e la chiusura del credito solo alle realtà economiche che non minacciano l’equilibrio interno italiano, ed esterno con i potenti padroni d’oltreoceano, con tutto il settore politico dominante sostanzialmente complice di queste potenti forze economiche. L’apparato politico DC accetta questa configurazione della struttura economica italiana che consente all’Italia di crescere rapidamente grazie alla diffusione di massa dei prodotti della seconda rivoluzione industriale, ma di non sviluppare le nuove potenzialità della terza.
D’altronde la classe politica italiana, come detto, aveva completamente accettato la sottomissione all’ombrello militare americano e alla NATO, rinunciando a sviluppare una propria politica estera autonoma ed un proprio potenziale militare; uno sviluppo che sarebbe stato fortemente legato a quello dell’alta tecnologia. Come ci ricorda Antonio Venier [16] , infatti: “Le industrie di alta tecnologia appartengono a pochissimi settori, tutti fortemente connessi con la difesa e quindi con l’indipendenza nazionale: l’aeronautica e lo spazio, l’energia nucleare, la grande elettronica ed i sistemi d’arma complessi. Sinteticamente, possiamo definire queste come le “industrie di superiorità”. Queste industrie sono di importanza fondamentale per la loro funzione di “progresso tecnico”, cioè di investimento nel patrimonio tecnologico nazionale, e di garanzia di indipendenza dall’estero in alcuni settori vitali, primo fra questi la difesa, e per il loro contributo alla bilancia commerciale“. Un paese che non costruisce una propria difesa e dipende dalla potenza militare altrui per la propria sicurezza, e che è stretto nei limiti angusti di una sfera d’influenza esterna, sacrifica inevitabilmente anche tutti quei settori industriali high tech che sono strategici per il proprio sviluppo.
Per questa sua condizione di subalternità, l’Italia ha visto abortire tanti progetti scientifici ed industriali – guidati da persone che, coscientemente o inconsciamente, non accettavano questo ruolo di sudditanza – che avrebbero potuto avere conseguenze a dir poco dirompenti per il nostro futuro e per il contributo italiano alla scienza e alla tecnologia.
Mi riferisco in particolar modo ai casi legati alle figure di Felice Ippolito, Adriano Olivetti, Enrico Mattei e Domenico Marotta, che sono in qualche modo esemplificativi.
Nel libro “Il Miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni sessanta” [17], scritto dal giovane giornalista scientifico Marco Pivato, si trova una ricostruzione dettagliata dei singoli casi, di cui mi servirò abbondantemente per riportare gli elementi essenziali che mettono in luce le dinamiche sopraddette. (In questo articolo non ci soffermeremo su di essa, ma sarebbe altrettanto utile ricostruire in tal senso anche la storia di Sergio Stefanutti e del suo aereo da caccia Aerfer Saggitario 2 il cui sviluppo fu bloccato dagli ambienti militari atlantici italiani per favorire il Sabre statunitense). 

Felice Ippolito: lo sviluppo tecnico-scientifico ed industriale del nucleare
Felice Ippolito (Napoli, 16 novembre 1915 – Roma, 24 aprile 1997) è stato un geologo e ingegnere italiano, importante promotore dello sviluppo dell’industria nucleare negli anni ’60. Il suo interesse per l’impiego dell’energia nucleare a fini civili deriva dalla sua attività come geologo nella ricerca di uranio. Nel 1952 è direttore del Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari, divenuto poi Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare nel 1960. Il comitato da lui amministrato non aveva personalità giuridica e non era per questo in grado di gestire risorse economiche. Nonostante questo Ippolito fu in grado di attuare diversi progetti di sviluppo del settore nucleare, tra cui le centrali del Garigliano e di Latina. L’Italia è in quel periodo il terzo paese al mondo per produzione di energia nucleare e dispone di competenze e know how molto avanzati. Ippolito mira a rendere la nazione indipendente dal punto di vista energetico”. Ma ecco che d’improvviso, un evento inaspettato spezza le gambe alla corsa scientifica e tecnica del nucleare italiano, così ben avviata. “Nell’agosto del 1963 indiscrezioni giornalistiche sollevano dubbi sulla correttezza dell’operato di Ippolito all’amministrazione del comitato. Nei mesi seguenti viene avviata una indagine ministeriale e si occupa della questione Giovanni Leone, che anni dopo diventerà Presidente della Repubblica. Il 3 marzo 1964 Ippolito viene arrestato per presunte irregolarità amministrative del CNEN. Ne segue un processo discusso, molto sentito dall’opinione pubblica e dalla stampa, che culmina con la condanna di Ippolito a 11 anni di carcere. È il famoso caso Ippolito. L’Italia ed il mondo politico sono molto divisi. Molti ritengono che la vicenda giudiziaria sia una farsa e Ippolito venga usato come capro espiatorio per stroncare la nascente industria nucleare italiana in favore di quella petrolifera. Fatto curioso è che poco prima, nell’ottobre del 1962, rimane ucciso in uno strano incidente aereo Enrico Mattei, promotore anch’egli di una indipendenza energetica italiana e favorevole al nucleare – anzi Mattei aveva promosso il nucleare fonando “Agip Nucleare” nel 1957 e poco dopo avrebbe dato il via alla costruzione della centrale elettronucleare di Latina” [18] . La linea pro-nucleare di Enrico Mattei, che è senz’altro un ulteriore motivazione del suo omicidio, garantiva un’importante scudo alle critiche ad Ippolito ed al suo CNEN. Non è evidentemente un caso che l’attacco giudiziario contro Ippolito si riesca a verificare poco dopo la scomparsa di Mattei e della sua protezione, quando l’ENI, sotto l’influenza del futuro presidente Eugenio Cefis, stava progressivamente abbandonando la linea tracciata da Mattei. Ippolito, dopo avere trascorso due anni di prigione, riceve la grazia dallo stesso Saragat, nel frattempo divenuto Presidente della Repubblica, mentre i programmi nucleari vengono sensibilmente ridimensionati.
Il modo più semplice per nuocere ad un’azienda rivale è uccidere il suo leader/manager carismatico; ma far fuori una persona può voler dire ucciderlo fisicamente, come nel caso di Enrico Mattei, oppure come capita più spesso, ed è il caso di Felice Ippolito, togliendolo dalla scena attraverso un uso ben studiato e simultaneo dell’apparato giudiziario e dei mass media. Ippolito non dava fastidio solo a determinati settori economici italiani subdominanti, ma era andato ad insediare la leadership di determinate imprese di punta americane, finendo così per nuocere alla sicurezza nazionale degli USA: “Tra la destra economica, i socialdemocratici e la destra politica compresa quella Dc – vi sono dunque interessi convergenti. Che, per quanto riguarda in particolare il Cnen, coincidono non soltanto con gli interessi delle «sette sorelle», comprensibilmente avverse allo sviluppo dell’energia nucleare, ma anche con quelli dell’industria nucleare americana. Se il Cnen e l’industria italiana riescono, come vuole Ippolito, a portare avanti una tecnologia nucleare autonoma e a costruire reattori, gli Stati Uniti perderanno oltre al mercato italiano, l’influenza nell’area europea dato che il Cnen ha una posizione di prestigio nell’ Euratom.
E poiché in Italia il «partito americano» raccoglie autorevoli anche se non sempre disinteressate adesioni data la generosità con cui il Dipartimento di Stato e la CIA pagano i loro «amici», gli avversari del centro sinistra hanno un motivo in più per scendere in campo contro il Cnen. O forse due. Perché dalle commesse alle industrie d’oltreoceano possono derivarne ulteriori utili, quelli delle tangenti. […] Contro il Cnen [quindi]vi sono anche interessi americani. Comunque il ruolo primario lo svolge l’Edison che, come si è visto, ha pure varie ragioni per mettere fuori gioco Felice Ippolito. A Giorgio Valerio, amministratore delegato dell’Edison, e al suo vice Vittorio De Biasi non mancano le possibilità per azionare un rullo compressore contro il segretario generale del Cnen: hanno finanziato e finanziano uomini politici di varie tendenze, hanno a disposizione o influenzano numerosi organi d’informazione.
” [19]
C’è poco da aggiungere, se non evidenziare il ruolo di quinta colonna interna dei dominanti americani giocato dall’Edison e dai poteri forti espressi dal “partito americano” direttamente influenzati dalla CIA e dal Dipartimento di Stato.

Adriano Olivetti: lo sviluppo dell’informatica e dell’elettronica
Adriano Olivetti (Ivrea, 11 aprile 1901 – Aigle (Svizzera), 27 febbraio 1960) è stato un imprenditore, ingegnere e politico italiano, il leader carismatico dell’omonima azienda informatica. Ereditata dal padre l’azienda per macchine da scrivere, riuscirà a trasformarla in un decennio in un’azienda d’avanguardia nel campo dell’elettronica, più in particolare dei calcolatori e nel 1960 sarà presente su tutti i maggiori mercati internazionali, con circa 36.000 dipendenti, di cui oltre la metà all’estero. Nel 1954 “Adriano “non intendeva far dell’Italia una colonia tecnologica, ma edificare dall’interno della sua azienda la via italiana all’informatica. L’azienda non poteva rimanere estranea al più grande processo di innovazione industriale in corso e decise di creare un laboratorio elettronico ad Ivrea. Adriano era sempre più convinto che l’elettronica costituisse un settore decisivo per lo sviluppo dell’umanità”.[20]
Una visione che, evidentemente, cozzava con l’indirizzo strategico americano di mantenere per sé il monopolio dell’elettronica. Sempre nel 1954, prese contatti con un giovane ricercatore italo – cinese, Mario Tchou, che diventerà presto il suo braccio destro. Nel 1955 instaurò una preziosa sinergia con l’università di Pisa dove non a caso, di lì a poco, nascerà il primo corso di scienze informatiche. Pertanto Adriano stava dando anche un grosso impulso all’evoluzione del sistema universitario italiano in direzione di una maggiore attenzione verso le materie scientifiche e tecniche d’avanguardia; riformare in questo senso il sistema educativo italiano voleva dire porre un importante tassello per uno sviluppo dell’Italia capace di intercettare l’ondata della terza rivoluzione industriale; cosa che a molti non piaceva affatto.
Nel 1957 Adriano, avvertendo la necessità di disporre di un grande numero di transistor per la produzione della nuova linea di calcolatori elettronici, decide di creare una nuova azienda per la produzione di circuiti a semiconduttori. Sebbene quindi sia la Bell Labs, nel 1955, a mettere a punto il primo computer a transistor, esso è sostanzialmente un prototipo. Sarà quindi Adriano a contemplare la produzione in serie di calcolatori da destinare all’industria e al pubblico” [21] .
Nei laboratori di ricerca della Olivetti lavorano giorno e notte tantissimi giovani ed entusiasti ingegneri italiani – appena sfornati dalle università – che hanno così la possibilità di sviluppare le loro competenze e la loro creatività – ma anche giovani filosofi ed intellettuali, entrambi accomunati dall’idea di sentirsi parte di una grande avventura rivoluzionaria per l’industria e la tecnica italiana. Ed infatti, nell’ottobre del 1959, da questi laboratori della Olivetti nasce “Elea 9003 – acronimo di Elaboratore elettronico automatico – terzo prototipo dopo Elea 9001 e Elea 9002, ed è il primo calcolatore a transistor commerciale della storia. Il design di Elea è innovativo ed è stato pensato dal giovane architetto Ettore Sottsass. Elea 9003 è il primo calcolatore in assoluto che può operare in “multiprogrammazione”. Per Vittorio Marchis, docente di Storia della tecnologia al Politecnico di Torino, “l’Italia può essere considerata a buon diritto il primo paese al mondo che abbia dettato la strada ai computer moderni, perché Elea 9003 è il primo calcolatore al mondo interamente transistorizzato che non sia semplicemente un prototipo, ma un calcolatore pensato per la produzione in serie” [22] .
Tutto ciò creava non pochi problemi per gli equilibri dei rapporti tra Stati Uniti ed Italia ed i politici democristiani capiscono perfettamente la delicatezza del caso; infatti “con l’entrata ufficiale nel campo dell’informatica, l’Italia diventa un paese industriale avversario delle concorrenti straniere, nondimeno rientra nella lista delle potenze con quei mezzi e quelle conoscenze che abbiamo definito “sensibili”. […] Il governo italiano, tuttavia, non sembra affatto sostenere e proteggere le ricerche nel nuovo campo: il presidente Gronchi presenzia alle inaugurazioni [dei nuovi laboratori Olivetti, Ndr], grato ai pioneri, ma la politica non pare affatto orientata a incentivare e sviluppare concretamente l’industria informatica italiana” [23] . Così commenta Mario Thou, insofferente al disinteresse del nostro governo verso ciò che sta accadendo nel teatro della competizione scientifica internazionale: ” Attualmente, possiamo considerarci allo stesso livello dei concorrenti dal punto di vista qualitativo. Gli altri però ricevono aiuti enormi dallo stato. Gli Stati Uniti stanziano somme ingenti per le ricerche elettroniche, specialmente a scopi militari. Anche la Gran Bretagna spende milioni di sterline. Lo sforzo della Olivetti è molto notevole, ma gli altri hanno un futuro più sicuro del nostro, essendo aiutati dallo stato” [24]. L’azienda non aveva sostenitori nel mondo politico e neanche da parte dell’establishment di Confindustria e del mondo bancario italiano; più facile pensare ad un vero e proprio fuoco di sbarramento.
Nel 1960 Adriano muore d’infarto in treno mentre è in viaggio da Milano a Losanna. Il suo fidato collaboratore, Mario Tchou, prenderà le redini dell’azienda. Il progetto di Mario era sempre quello di potenziare la scienza informatica italiana per renderla competitiva con i concorrenti statunitensi. Il laboratorio di ricerche elettroniche prosegue nel suo lavoro. Ma nel 1961, mentre è in macchina per Ivrea, Mario Tchou muore in un incidente stradale. “Sulla morte di Tchou vi furono molti sospetti sui mandanti occulti. Secondo alcuni colleghi viventi dell’ingegnere Tchou, sentiti per ricostruire questa storia, l’ipotesi è questa: aver affidato ad un “muso giallo” il compito di condurre l’Italia nei segreti dello strategico mondo dell’informatica, non poteva non destare le preoccupazioni di chi, in quel momento storico, aveva il maggior interesse a monopolizzarlo, o per lo meno a primeggiarvi, e cioè gli Stati Uniti”.
“Se probabilmente la morte di Mario Tchou fu banalmente un incidente, tuttavia era evidente che in quegli anni gli Stati Uniti avessero enorme interesse a salvaguardare, anzi a monopolizzare, la scienza dei calcolatori, tenendo fuori l’Italia con qualsiasi mezzo in quanto paese confinante con l’impero sovietico e contenitore del più grande partito comunista d’Europa.”
La foto ritrae Mario Tchou, al centro, a Ivrea nel 1961 in occasione della visita dell’industriale tedesco Krupp (il primo a sinistra) agli stabilimenti Olivetti. Mario Tchou (1924-1961), figlio di un funzionario dell’ambasciata cinese in Italia, entra in Olivetti nel 1955, poco più che trentenne. Roberto Olivetti l’ha incontrato alla Columbia University di New York e avendone apprezzato le competenze scientifiche e professionali, l’ha convinto a guidare un progetto che porterà alla costruzione dell’Elea 9000, il primo calcolatore elettronico italiano. Dopo il periodo trascorso a Barbaricina, nei pressi di Pisa, nel 1958 con il Laboratorio di Ricerche Elettroniche Olivetti si trasferisce a Borgolombardo, vicino a Milano. Con la presentazione (1959) dell’Elea 9003 cresce il suo prestigio dentro e fuori dell’azienda. Scompare nel novembre 1961, vittima con il suo autista di un incidente sull’autostrada Milano-Torino. (da http://www.storiaolivetti.it/fotogallery.asp?idPercorso=628&idOrd=2)
“Con la scomparsa di Mario, termina l’epoca di Adriano dell’azienda, e nell’ottica di riprendere in mano le redini a quel cavallo di razza che aveva perso il suo carismatico fantino, si fa avanti un gruppo misto pubblico-privato, il cosiddetto “gruppo d’intervento”, formato da Fiat, Pirelli, Mediobanca, Imi e la Banca Centrale, che entrano nel capitale Olivetti. [..] Nel 1964, Vittorio Valletta -presidente Fiat- rilascia una famosa dichiarazione “La società di Ivrea è strutturalmente solida e potrà superare senza grosse difficoltà il momento critico. Sul suo futuro pende però una minaccia, un neo da estirpare: l’essersi inserita nel settore elettronico, per il quale occorrono investimenti che nessuna azienda italiana può affrontare” [25] . Quest’ultima frase è emblematica di quali forze ed interessi si nascondessero dietro a questo gruppo di intervento. In particolare queste sono le forze economiche che si pongono in modo complementare rispetto all’economia americana – sono quelle forze, subdominanti, che a tutt’oggi in Italia sono contrarie alle sviluppo, e non alla semplice crescita- del paese, e che Gianfranco La Grassa ha denominato Grande Finanza ed Industria decotta.
Poco dopo “la nuova società, che costituisce il ramo della ricerca scientifica olivettiana, viene venduta per il 75% su decisione del gruppo d’intervento, alla multinazionale americana General Electric. Con la vendita – o svendita per dirla con le parole di Rao- della Deo, la politica industriale italiana cede definitivamente agli Stati Uniti il primato nella ricerca scientifica applicata all’informatica” [26]. Quello di svendere, con la scusa di dover far cassa e per ragioni puramente finanziarie, a concorrenti stranieri, le industrie di punta italiana – che finiranno così per essere destrutturate, depotenziate, ridotte a semplici succursali di marketing e private di una visone industriale di sviluppo autonoma – è il modo per liquidare definitivamente l’Italia come competitore in questi settori strategici, e sarà una pratica ampiamente utilizzata durante la svendita degli anni ’90 del residuo patrimonio industriale pubblico italiano. “E’ pertanto verosimile che sulla vicenda della Deo all’americana General Electric ci siano state pressioni direttamente da parte degli USA. C’è dopotutto una sovrapposizione d’interessi tra gli USA e le aziende del gruppo d’intervento Fiat, Mediobanca e Iri. Infatti, anche senza chiamarlo “debito”, le aziende di cui sopra hanno un vincolo solidale con gli Stati Uniti, dal momento che proprio quelle aziende sono state le maggiori beneficiarie degli aiuti erogati in base al Piano Marshall negli anni del Dopoguerra” [27] . Mario Caglieris, tesoriere della Olivetti al tempo del gruppo di intervento guidato dalla Fiat, “ha ammesso che ci sono state effettivamente esplicite pressioni da parte di imprese americane affinché si vendesse la Deo e che l’Italia non potenziasse il suo sapere nel mercato dell’informatica“.
“Lorenzo Scoria conclude il suo libro inchiesta così: “Sono convinto che il nodo da sciogliere sia un nodo politico. E che sia questo il motivo per cui il progetto di Adriano Olivetti ha fatto la fine che ha fatto e con il passare degli anni la situazione è, se possibile, peggiorata: nessuno cioè ha ancora saputo dire “no” al ruolo subalterno in cui la divisione internazionale del lavoro ha relegato il paese. L’informatica è solo uno dei tanti episodi che confermano questa emarginazione“. [28]

Enrico Mattei: lo sviluppo del petrolchimico e la modernizzazione dell’Italia.
La storia di Mattei è sicuramente la più conosciuta; comunque da wikipedia riportiamo:
Enrico Mattei (Acqualagna, 29 aprile 1906 – Bascapè, 27 ottobre 1962) è stato un imprenditore e dirigente pubblico italiano.
Nell’immediato dopoguerra fu incaricato dallo Stato di smantellare l’Agip, creata nel 1926 dal regime fascista; ma invece di seguire le istruzioni del Governo, riorganizzò l’azienda fondando nel 1953 l’ENI, di cui l’Agip divenne la struttura portante. Mattei diede nuovo impulso alle perforazioni petrolifere nella Pianura Padana, avviò la costruzione di una rete di gasdotti per lo sfruttamento del metano, e aprì all’energia nucleare. Sotto la sua presidenza l’ENI negoziò rilevanti concessioni petrolifere in Medio Oriente e un importante accordo commerciale con l’Unione Sovietica, iniziative che contribuirono a rompere l’oligopolio delle “Sette sorelle
” (le sette compagnie petrolifere, cinque americane, una inglese ed una anglo-olandese, Ndr.), che allora dominavano l’industria petrolifera mondiale. Mattei introdusse inoltre il principio per il quale i Paesi proprietari delle riserve dovevano ricevere il 75% dei profitti derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti.
Pur non essendo attivamente impegnato in politica, era vicino alla sinistra democristiana e fu parlamentare dal 1948 al 1953. Morì in un misterioso incidente aereo nel 1962. In seguito a nuove evidenze, nel 2005 è stato stabilito che l’incidente fu di natura dolosa.” [29]
“Mattei vede nel cartello delle “sette sorelle il collo di bottiglia che strozza lo sviluppo industriale del nostro paese, ma l’importazione di combustibili liquidi a basso prezzo ottenuta grazie alla sua politica sta concedendo respiro all’economia. Secondo Nico Perrone, nominato nel 1961 da Mattei come esperto nel gabinetto del ministro per la Riforma della pubblica amministrazione, le “sette sorelle” si consultavano per dividersi zone di approvvigionamento e mercati, e soprattutto per determinare prezzi e condizioni di acquisto in modo da mantenere la situazione di oligopolio. Se le cose fossero rimaste in quei termini, lo sviluppo italiano ne sarebbe stato fortemente condizionato”
“Enrico Mattei vuole dare all’Italia una nuova e grande possibilità di evolvere: “Il lavoro che stiamo facendo adesso è naturalmente una garanzia per l’avvenire – spiega al giornalista Granzotto- e ancora, per lo sviluppo, perché l’Italia aumenterà i consumi e quindi dovremo aumentare le produzioni. Noi vogliamo dare all’Italia la tranquillità per l’avvenire: l’Italia sta diventando un grande Paese industriale e lo diventerà sempre di più”.[30]
1962 – Mattei visita la centrale nucleare di Latina
Per Mattei l’indipendenza energetica è fondamentale per lo sviluppo industriale del paese e quindi per la sua autonomia. Le sue mosse diventano ancora più intollerabili al “partito americano” perché consentono all’Italia di uscire dalla soffocante morsa geopolitica atlantica, gettando le basi di proficue e rispettose collaborazioni economiche, da “soci e non da coloni”, con i paesi non occidentali, che avrebbero presto potuto evolvere in inedite relazioni politiche in contraddizione con l’adesione dell’Italia alla NATO.
Per riuscire nell’impresa Mattei decide di scavalcare il monopolio delle compagnie petrolifere americane ed entrare in affari direttamente con i paesi produttori. […] Così, poiché le riserve italiane si rivelano insufficienti, comincia la campagna diplomatica dell’ENI all’estero. Nel marzo del 1957 Mattei firma una collaborazione con l’Iran per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi. E’ il primo gesto di ribellione al monopolio delle “sette sorelle”, a cui segue lo sgambetto alla NATO, il 4 dicembre 1958, quando Mattei stipula il primo contratto di acquisto di petrolio grezzo dal governo russo rompendo l’embargo commerciale tra Est e Ovest. In gergo populistico è un “uno-due”, una reazione alla dittatura della politica economica degli Stati Uniti. L’Eni si è agganciata alla rete orientale dell’oro nero, una rete che dall’Unione Sovietica va dagli Urali alla Polonia, alla Germania orientale passando per la Cecoslovacchia e l’Ungheria. Il 2 settembre del 1957, il New York Times scrive che “Il dipartimento di Stato è preoccupato e le grandi società petrolifere americane sono adirate circa la probabilità che l’Iran, all’inizio di questo mese, rompa il solido fronte degli accordi con la partecipazione ai profitti fra i governi del Medio Oriente e le società petrolifere occidentali”. Ma il giornale non sa che è solo il primo round. Dopo l’Iran e l’Unione Sovietica, tocca alla Cina di Mao” [31].
Che la colonia Italia si trovi, dopo 50 anni dal caso Mattei, a dover ancora fare i conti con le pressioni, le minacce e le ingerenze multiformi del partito atlantico, per i nostri rapporti commerciali con gli Stessi paesi incriminati di allora, in particolar modo per la nostra politica energetica con la Russia attraverso il gasdotto South Stream [32] o per la presenza dell’Eni in Iran [33] , o per le collaborazione con la Libia di Gheddafi [34] , e che la nostra classe politica alla fine accetti supinamente quelle che sono le richieste che vengono da Washington, è dovuto anche alla forza e alla spietatezza con cui i “poteri forti” atlantici hanno sempre stroncato, come dimostra la fine che farà Mattei, chiunque si facesse interprete, consapevole o meno che lo fosse, di un’opzione diversa rispetto a quella “occidentale”. D’altronde il fatto che oggi, pur non essendoci più lo spauracchio del comunismo come allora, le relazioni dell’Italia con i paesi non allineati alla NATO continui ad essere un problema, dimostra che alla fine uno degli scopi prioritari del partito atlantico è semplicemente quello di mantenere la propria egemonia sull’Italia, una questione di rapporti di forza, al di là di tutti i corredi ideologi giustificatori della propria predominanza.
L’opera di Mattei, seppur stroncata violentemente con il sabotaggio del suo aereo, permisero all’Italia di modernizzarsi e di ereditare un’azienda fortissima, ricca di competenze tecniche e know – how:
L’Eni, che ha iniziato la sua attività con l’Agip, è passata dalla produzione di 300 milioni di metri cubi di metano e 5000 tonnellate di petrolio del 1950, ai 6.200.000 metri cubi di metano e 673.000 tonnellate di idrocarburi liquidi dell’inizio degli anni sessanta. Nel 1962 l’Eni è operante anche in Egitto, Sudan, Somalia, Libia, Marocco, Tunisia e altri quindici stati africani, e l’Italia si trova al primo posto per numero di impianti e al terzo per capacità di raffinazione. Nel 1962, il gruppo Eni comprende ottanta società, trentaquattromila dipendenti e produce 6 miliardi e mezzo di mq di metano. Inoltre possiede raffinerie, navi cisterne, circuiti di distribuzione di carburante in Italia e in molti altri paesi in Europa. Una grande organizzazione merito di Mattei, più che dello Stato.” [35]
Mattei non fermava il suo sguardo solo al campo dell’energia, petrolio o nucleare che fosse, ma il suo orizzonte era proiettato al futuro, molto in avanti, allo sviluppo delle nuove branche della scienza del XX secolo e alle sue possibili straordinarie ricadute per la vita dell’uomo. Un sfida a cui l’Italia, nella sua visione, avrebbe dovuto partecipare e giocare da protagonista. Ecco cosa disse durante il suo discorso per il conferimento della laurea honoris causa all’università di Camerino.
E’ antico convincimento che la scienza opera sempre a vantaggio dell’uomo. Alcuni rami del sapere, come la medicina, l’igiene, la biochimica hanno radicalmente trasformato le costanti dell’esistenza umana, riducendo al minimo la mortalità infantile e prolungando la durata della vita. Ciò ha contribuito in modo decisivo al presente rapido accrescersi della popolazione, ma ha altresì allontanato l’incubo delle malattie e il terrore della morte, ed ha quindi diminuito sacrifici e dolori. Altri rami della scienza come l’agronomia, la genetica, la scienza dell’alimentazione, oggi operano per fronteggiare il temuto eccesso demografico in modo che non si trasformino in un disastro per l’umanità i benefici ad essa apportati dall’allungamento della vita […] Credo di aver sufficientemente dimostrato che […] il rapido progresso realizzato nel giro di pochissimi anni permetta d’immaginare quanto sarà grande il loro apporto al mondo di domani” [36].
Per partecipare da protagonisti alla grande avventura della scienza del domani, l’Italia, oltre che a liberarsi dalla morsa “atlantica”, doveva anche emanciparsi da alcuni miti incapacitanti e demoralizzanti che la dipingevano come un paese di soli poeti, letterati, mandolinisti e posteggiatori abusivi. Era ora di cominciare ad erigere, invece, un sistema scolastico ed una cultura che sintetizzasse gli studi umanistici e classici, con la più rigorosa formazione scientifica e tecnica d’avanguardia; un intento che ricorda molto da vicino quello di Adriano Olivetti.
Nel discorso di apertura nel 1960 della Scuola di studi superiori sugli idrocarburi a Metanopoli, Mattei dirà: “[…] Io proprio vorrei che gli uomini responsabili della cultura e dell’insegnamento ricordassero che noi italiani dobbiamo toglierci di dosso questo complesso d’inferiorità che ci avevano insegnato: gli italiani sono bravi letterati, bravi poeti, bravi cantanti, bravi suonatori di chitarra, brava gente, ma non hanno la capacità della grande organizzazione industriale. Tutto ciò è falso e noi ne siamo un esempio […] abbiamo creato scuole aziendali per ingegneri, per specialisti, per operai, per tutti e dappertutto con sforzo continuo […]” [37].
E’ pertanto difficile immaginare un Mattei favorevole all’indirizzo che ha finito per prendere il sistema educativo e culturale italiano nei decenni successivi alla sua morte – anni che hanno visto la crescita abnorme del lato umanistico e letterario, molto spesso distorto in disquisizione puramente sofistica ed accademica da un ceto intellettuale presuntuoso, a discapito della materie tecniche e scientifiche sempre più sbeffeggiate e considerate per uomini rozzi – e che hanno finito per fare dell’Italia un paese a forte vocazione turistica e a scarsa capacità industriale e di innovazione.
Per concludere, la sua visione progressista del ruolo della scienza e della tecnica, unite alla sua grande visione strategica ed al suo forte spirito pratico, potevano fare di Mattei il traghettatore di un’Italia moderna, sovrana ed innovatrice, proiettata nel futuro e capace di cavalcare la sfida della terza rivoluzione industriale.


Domenico Marotta: lo sviluppo tecnico e scientifico della chimica e della biologia.
Mentre in Italia, sui giornali e nelle aule di tribunale, infuria il caso Ippolito, negli stessi mesi capitola un altro personaggio pubblico strategico nella ricerca scientifica italiana. Si chiama Domenico Marotta, di formazione chimico, direttore dell’Istituto superiore di sanità (Iss) dal 1935 al 1961. […] Nei ventisei anni alla guida, ottimizza la qualità e la quantità delle ricerche dell’ente. Nel 1946, sotto Marotta, l’Iss realizza il primo ed unico microscopio elettronico italiano… Nel 1948 crea il Centro internazionale di chimica e biologia. Vi installa un mastodontico fermentatore, un impianto di produzione per la penicillina che fa diventare l’Italia uno dei paesi leader nella dispensazione del farmaco. Il fermentatore divenne operativo a pieno ritmo per la sua produzione dal 1951: una iniziativa senza eguali che offriva all’Italia una certa autonomia in questo settore farmacologico, dominato da Inghilterra e Stati Uniti.” [38]
La ricerca scientifica di Marotta si sta edificando a tal punto che sarà capace di calamitare un gran numero di scienziati e collaboratori. Una delle rare occasioni in cui il brain drain si muove in direzione dell’Italia e non degli Stati Uniti.
Il virtuosismo dell’ente guidato da Marotta attira l’attenzione di illustri scienziati di fama internazionale avendo creato, di fatto, un centro di attrazione mondiale: all’Istituto svolgono la loro attività di ricerca i premi Nobel per la medicina e la fisiologia, un fenomeno che oggi potremmo considerare contrario del brain drain. Sui banchi dell’Istituto arriva, per esempio, Ernst Boris Chian, Alexander Fleming, Howard Walter Florey e Daniel Bovet; proprio quest’ultimo, svizzero biochimico, invitato in Italia da Marotta per proseguire i suoi studi sugli antistaminici, fonda all’Istituto il Laboratorio di chimica terapeutica. Nel 1957, per i suoi studi nel campo della farmacologia diviene anche lui premio Nobel per la medicina e la fisiologia” [39].
Ma puntuale, sempre in quel biennio terribile per lo sviluppo futuro dell’Italia, si scatena la macchina giudiziaria per stroncare l’audacia edificatoria di Marotta.
Nel 1962 un impiegato dell’istituto pubblico, Giuseppe Meli, segnalò diverse irregolarità nell’amministrazione (dell’Iss) , che non sarebbe stata conforme alle disposizioni legislative. Vennero aperte due inchieste parallele, una del Ministero del Tesoro ed una del Ministero della Sanità. Anche una parte della stampa di sinistra sostenne le accuse. Le inchieste ministeriali stavano per concludersi favorevolmente per Marotta, quando la questione passò (probabilmente grazie ad un’abile manovra) nelle mani della magistratura.
L’8 aprile 1964 Domenico Marotta, ormai ottantenne in pensione, fu arrestato per irregolarità amministrative nella gestione dell’ente pubblico. Il processo si svolse parallelamente ad un altro, che vide coinvolto un personaggio che alla direzione d’un altro ente statale ne aveva risollevato il destino e, come Marotta, era accusato di illeciti amministrativi: Felice Ippolito.
In primo grado Marotta fu condannato a sei anni e otto mesi di carcere, ma in appello le accuse furono ampiamente svalutate, portando all’assoluzione dell’imputato.
Ma ormai il danno era stato fatto: l’Iss era stato privato della sua guida carismatica e aveva subito un duro contraccolpo e da lì cominciò la sua inarrestabile crisi, parzialmente tamponata solo un decennio più tardi” [40].
Sembra pertanto plausibile ricondurre l’operazione Marotta all’interno di quella più vasta azione a tenaglia scatenata dal “partito americano”, agli inizi degli anni sessanta, per interrompere sul nascere lo sviluppo complessivo, industriale e scientifico, dell’Italia. Guardando a cosa è successo agli altri tre esponenti dell’industria e della ricerca d’avanguardia italiana in quegli anni, ed in particolare a Felice Ippolito, quella contro Marotta si può leggere come un’operazione giudiziaria ad orologeria attentamente preparata e manovrata dai poteri forti, sfruttando le complicità del potere giudiziario e del potere mediatico, e l’ingenuità di persone, come Giuseppe Meli, sicuramente utilizzate in un gioco più grande di loro.

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Nei primissimi anni del 1960 dunque, furono sferrati quattro colpi micidiali alle possibilità dell’Italia di intraprendere un percorso di sviluppo tecnico – scientifico ed industriale di primissimo livello; una “mazzata” – che ha colpito quelle aziende che avevano raggiunto una grande dimensione, una forte integrazione e una solidità tale da permetterle di investire nella ricerca e che operavano nei settori di punta e ad alta tecnologia – che ha impedito all’Italia di partecipare a pieno titolo alla sfida della terza rivoluzione industriale. In quei settori, nel nostro paese, sarebbero rimaste per lo più solo piccole e medie aziende incapaci di portare avanti grandi progetti di ricerca e sviluppo e quindi innocue per i competitori americani. Le uniche grandi aziende, in Italia, continueranno ad essere quelle della passata rivoluzione industriale, guidate dalla FIAT.
Non sorprende quindi che la terza rivoluzione industriale si sia sviluppata e radicata profondamente solo negli Stati Uniti, mentre in Italia e in quasi tutti gli altri paesi del campo capitalistico vi abbia avuto una presa solo marginale o comunque a rimorchio degli USA. In particolare la TIC, quella tecnologia dell’informazione e della comunicazione che aveva visto i suoi albori in Italia con la Olivetti negli anni ‘50, diventerà il motore economico trainante negli anni successivi per gli Stati Uniti, con la fondazione delle grandi aziende come Microsoft, Apple, Dell, solo per citarne alcune. In seguito gli USA saranno alla testa della rivoluzione di Internet nata, ovviamente, come rete operante in ambito strettamente militare; quel settore di ricerca “sensibile” in cui vi era il quasi totale monopolio d’azione americano. Così si può dire dello spazio e dei lanci spaziali, dei radar, dei laser, dei satelliti artificiali e degli altri settori della terza rivoluzione industriale.
Ovviamente il nostro rammarico non è che questi progressi scientifici – tecnici siano alla fine avvenuti, anzi – la scoperta dello spazio e gli shuttle, i computer e i software, i satelliti, Internet, i reattori nucleari di nuova generazione, i telefoni cellulari, la mappatura del DNA, etc. hanno entusiasmato anche noi – ma il rammarico è che l’Italia vi abbia potuto contribuire marginalmente solo agli albori, e poi, per le ragioni che abbiamo visto, poco o nulla, venendo esclusa dal gioco, potendo continuare a fare le automobili ma per il resto potendo fare solo da spettatrice. Mentre invece avevamo tutte le carte in regola per dire la nostra; e chissà cosa ne sarebbe saltato fuori, nella terra che aveva dato i natali a Galileo Galilei e ad Alea 9003.
Nei decenni successivi al ’60, l’Italia, pur sempre da inseguitrice e pur senza mai sfondare in quei settori “vietati”, high tech, di esclusiva pertinenza americana, poté considerarsi una potenza industriale di medio – alto livello, grazie a tassi di crescita elevata, tale da potersi sedere a tavoli come quello del G7. Sotto la tutela dello Stato, continuavano ad operare grosse imprese industriali, tra cui quelle che si andavano innovando sotto la spinta dei cambiamenti d’oltreoceano. La classe politica italiana, nel frattempo, tollerata dagli USA, cercava di ritagliarsi un proprio spazio di manovra nel Mediterraneo, stringendo collaborazioni anche con diversi paesi non proprio ben visti dagli USA, come la Libia di Gheddafi, attuando una politica moderatamente filo-araba. Erano gli anni di Moro, Andreotti e Craxi.
Agli inizi degli anni ’90 però, con la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS, cambiarono gli equilibri a livello mondiale. Ritornava la Germania unita, ma soprattutto gli USA accarezzavano l’idea di istaurare il proprio predominio a livello mondiale e di portare il Washington consensus fino a Mosca. Nel contempo all’orizzonte emergeva con prepotenza il gigante cinese…
E’ in questo fluido scenario, che quasi sicuramente va letta la seconda ondata di “pulizia”, “mazzate” e “svendite”, seguente a quella dei primi anni ’60, che mira a riportare l’Italia indietro di qualche anno, indebolendone il suo sistema economico ed industriale e a renderla politicamente più docile e malleabile per i nuovi piani complessivi degli strateghi anglosassoni in Medio Oriente ed in Asia. Per fare questo era necessario, anzi fondamentale, liquidare l’intera classe politica precedente riottosa a questo nuovo scenario. E come negli anni sessanta, si ricorse alla magistratura.
Non stiamo adesso a ripercorrere in dettaglio quello che è successo agli inizi degli anni ’90, con l’operazione “Mani Pulite”, con la formazione dei successivi governi tecnici, che si assunsero la responsabilità di liquidare e smembrare le più importanti industrie nazionali. Il risultato sostanziale fu comunque che la grande finanza anglosassone, guidata dalla banca d’affari americana Goldman Sachs e Merryl Linch, riuscì a mettere le mani su molti bottini industriali pregiati, gestendoli in modo puramente finanziario, come logica vuole. A mangiare al banchetto italiano allestito da Prodi, Draghi, Ciampi ed Amato, si precipiteranno anche i francesi e i tedeschi. [41]


LA QUARTA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E LA FINE DELLA PAX AMERICANA

Ancor oggi non sono terminati i tentativi di mettere al tappeto, definitivamente, quelle aziende italiane strategiche – in particolare Eni (ancora lei!), Enel, Finmeccanica – che rappresentano una spina nel fianco alle operazioni complessive di dominio – e conservazione del dominio- degli americani; azione a cui, per opportunismo si accodano volentieri altre potenze europee e non, comunque sempre interessate ad indebolire l’Italia, come la Francia e l’Inghilterra per esempio (vedasi la recente guerra in Libia). [42]
Ormai credo si sia chiaramente capito come difendere la sovranità politica dell’Italia, voglia dire difendere lo sviluppo tecnico – scientifico – industriale della nostra nazione, con la nascita ed il rafforzamento delle imprese strategiche, l’unica basa d’altronde su cui è possibile costruire un’autonomia politica.
Al giorno d’oggi, queste aziende, se vogliono crescere, ma anche solo sopravvivere, si devono rivolgere in particolare alle nazioni emergenti e in spettacolare sviluppo, come i paesi BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) [43], dove ci sono grandi opportunità di sviluppo e crescita e dove, solitamente, sono ben accette per il contributo che portano al miglioramento complessivo della nazione e all’innalzamento del know how tecnologico in possesso di quel paese; certo, la competizione per questi mercati – che possiamo geograficamente identificare come a Sud ed a Est dell’Italia – è già agguerrita, ma tutto diventerebbe più facile se alla difficile penetrazione puramente economica nei mercati fosse affiancata un’adeguata iniziativa di partenariato politico. Questo sguardo – non solo economico ma anche fondamentalmente politico- ad Est e Sud, se era già strategico ai tempi di Enrico Mattei, lo è ancora di più adesso, in un momento in cui le nazioni occidentali, compresi gli USA, dopo la crisi del 2008, attraversano invece un periodo di contrazione economica e di difficoltà politica, che presumibilmente durerà ancora a lungo. La cinquantennale pax americana sta terminando.
Sappiamo però che, in virtù della posizione dominante che gli USA hanno assunto alla fine della seconda mondiale sull’Europa e sul nostro paese, è ancora obbligatorio per l’Italia guadare ad Ovest, verso Washington, oltrechè a Nord verso la Bruxelles “atlantica”. Anche se i fattori economici spingono in direzione Est e Sud, verso i paesi BRIC e le loro aree geopolitiche, l’Italia è sempre costretta a guardare a Washington (l’Ovest). Mentre un’ interpretazione realista dei rapporti fra economia e politica dovrebbe suggerire come proficui e duraturi rapporti economici con i paesi BRIC si possano sviluppare solo all’interno di un’adeguata cornice politica fatta di patti di mutuo rispetto, di non aggressione, di stretta collaborazione sulla sicurezza e la condivisone di dati sensibili, etc, questo approccio realista alle relazioni economiche risulta però impossibile, o fortemente limitato, fino a quando l’Italia seguirà le direttive della politica estera americana, inglese e dell’Europa “atlantizzata” – direttive che vanno contro gli interessi dei paesi BRIC (o delle nazioni che gravitano attorno ai BRIC) – che non possono tollerare di vedersi sfuggire via i propri fidi e supini alleati, e finché l’Italia continuerà ad essere costretta dentro alla formazione militare della NATO.
Tra i paesi BRIC ci sono i futuri contendenti della supremazia degli Stati Uniti e, come tutti gli Imperi in declino, gli USA cercano di ostacolarne o quantomeno a ritardarne l’ascesa; per fare questo, da una parte rinserrano i ranghi dei propri alleati e subalterni, forzandoli a rimanergli fedele ed evitando defezioni (soprattutto dalla NATO), dall’altra si adoperano in tutti i modi per danneggiare i rivali, senza passare però alla guerra aperta che ci sarà solo per una resa dei conti definitiva.
Quello degli imperi in crescita ed in declino, è una costante della storia e gli USA non fanno eccezione; la situazione degli Stati Uniti, mutatis mutandis, ricorda molto da vicino quella dell’Impero inglese a cavallo tra il XIX e XX secolo. Il problema è che se sul finire della pax britannica, gli Usa hanno svolto un ruolo progressivo nella storia emancipandosi definitivamente, a forza, dalle catene dell’Impero inglese, dando il via ad uno sviluppo spettacolare della propria forza statuale, economica, tecnica e militare; al contrario, oggi, sul finire della pax americana, gli USA svolgono un ruolo reazionario nel loro tentativo di ritardare, contenere, distruggere, l’ascesa – e quindi lo sviluppo – delle altre nazioni, in particolare, tra i Bric, di Russia e Cina. Questo “grande gioco” reazionario americano nel mondo, è all’origine di quasi tutte le tragiche guerre in corso sul pianeta, che hanno lo scopo di volta in volta di sferrare un colpo a Pechino ed uno a Mosca, di minarne la forza, lo sviluppo e la stabilità, di far sentire la propria presenza minacciosa a New Delhi, di mettere zizzania tra i propri rivali per evitare che si alleino, di tenere lontana l’Europa (i paesi europei) da queste nazioni ostacolandone l’integrazione economica e le partnership, e ricacciarla sotto il proprio ombrello e possibilmente indebolirla.
L’Italia pertanto, continuando a rimanere sotto l’ombrello americano, è costretta a partecipare ad una serie di operazioni militari reazionarie, all’insegna della strategia del divide (distruggi) et impera, che oltre ad essere moralmente deprecabili perché falsamente “umanitarie” e causa di migliaia di morti, vanno contro i propri interessi economici e di sviluppo.
Difendere politicamente le nazioni emergenti dalla reazione dell’Impero USA, oltre ad essere, in questo momento, economicamente conveniente per l’Italia, assume un connotato “progressista”; come è stato per la Germania e gli Stati Uniti durante la fine della pax britannica quando diventarono le culle dello sviluppo mondiale della scienza e della tecnologia, emancipandosi, con la forza, dall’Impero inglese ed erigendosi a potenze, così oggi, il progresso della scienza, della tecnologia e dello sviluppo sociale a livello mondiale passano per il rafforzamento e il consolidamento dei poli antagonistici agli USA. In Cina, la scienza e la tecnologia registrano formidabili e costanti progressi su dimensioni vertiginose [44] , e questi progressi non sono dissociabili dalla robustezza dello stato cinese, dalla sua potenza, e dalla sua difesa contro le ingerenze americane.
Oggi la Cina, come gli altri paesi BRIC, riesce a diffondere, agli altri paesi dell’Asia e del mondo, la modernizzazione e lo sviluppo in un modo nettamente più efficace di quanto tentino di fare, spesso invano – sovente anzi con il risultato di alimentare solo la povertà, l’integralismo e il terrorismo – gli USA. I BRIC, se non per difendersi dalle ingerenze occidentali, operano, in questa fase storica, attraverso la pacificazione, la graduale inclusione, con un movimento sostanzialmente contrario a quello guerrafondaio atlantico. Ha detto il probabile futuro presidente della Cina, Xi Jinping, a proposito del suo Paese: “Primo: la Cina non esporta la rivoluzione. Secondo: La Cina non esporta fame e povertà. Terzo:la Cina non esporta seccature. Cosa volete di più?” [45]
Lo stesso discorso si può fare per la Russia, che solo grazie al tanto demonizzato Putin, è riuscita a tenersi in piedi ed a cominciare a rilanciare i propri progetti di potenza ed integrazione regionale e quindi di sviluppo scientifico, tecnico e sociale, resistendo ai tentativi di smembramento attuati dagli occidentali. Anche il Brasile di Lula si è dovuto più volte difendere dalle ingerenze interessate degli americani, che temono l’ascesa del gigante brasiliano nel proprio “cortile di casa”. Anche l’India si sta costituendo a polo autonomo, non senza frizioni con quelli che al momento sembrano essere i suoi alleati strategici, gli Usa, che paiono voler cinicamente giocare la carta indiana contro la Cina e la Russia (“il mettere la zizzania” di cui si parlava prima).
La situazione internazionale è molto fluida, analoga a quella a cavallo dei secoli XIX e XX e quindi ci potranno essere sicuramente repentini cambi di fronte, ma quello che importa è che questi poli, i BRIC ed altri paesi di minore importanza, si siano formati e si stiano rafforzando, erigendo solide strutture statuali, esprimendo una propria particolare idea dei rapporti internazionali, ma soprattutto coinvolgendo nel loro sviluppo miliardi di persone, molte delle quali per la prima volta hanno conosciuto la modernizzazione e sono passati subito alla seconda e alla terza rivoluzione industriale e sono proiettati con entusiasmo alle innovazioni del futuro. In termini mondiali, si potrebbe dire che il pianeta dispone e disporrà di un capitale umano al servizio della scienza e della tecnologia, senza precedenti. E tutto ciò favorisce a livello planetario la diffusione dell’etica e delle norme della scienza, ben espresse dai principi “mertoniani” del CUDOS [46] : comunismo del sapere, universalismo, disinteresse e scetticismo organizzato.
E l’Europa che fa? Lo stesso discorso fatto per l’Italia, vale per l’Europa: l’Europa avrebbe una disperata necessità di conquistarsi la propria sovranità politica ed emanciparsi dalla tutela americana, per dare un nuovo e decisivo impulso al suo sviluppo. Ci vorrebbe un’opzione “listiana” di scala europea. Un blocco europeo autonomo di dimensioni continentali, con una decisa volontà politica, sarebbe oltretutto la piattaforma ideale per attuare quella big science che, come abbiamo visto all’inizio, richiede esponenzialmente sempre più risorse, in termini umani e materiali. Il grande progetto del Cern di Ginevra, con l’LHC, sta lì a dimostrare quali potenzialità avrebbe un’Europa che lavora insieme per un grande progetto. Invece l’Europa manca di volontà politica, manca di quella forza necessaria in queste fase storiche decisive. L’Europa infatti continua a nicchiare, a seguire docilmente le strategie guerrafondaie anglosassoni, opposte ai suoi interessi. E’ una creatura solo economica, il che ha certo la sua importanza, ma il momento storico attuale richiede che la politica, tout court, si ponga al posto di comando. E la politica oggi la si vede molto poco a Bruxelles e invece molto ancora nelle diverse capitali europee che continuano a perseguire i propri interessi nazionali, molte volte subordinandoli a quelli di Washington o azzuffandosi tra europei, molte volte spinti in questo dagli stessi USA.

Se mai ci potrà essere un’Europa politicamente unita, questo ci potrà essere solo quando i singoli stati nazionali europei avranno ottenuto la loro sovranità da Washington e riconosceranno la necessità di un vero blocco continentale in partenariato strategico, politico, economico e militare con la Federazione Russa.

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Foto: il Cern di Ginevra
Michele Franceschelli

NOTE:
1. “Piccole cronache”, di Cipolla Carlo M., 2010, Il Mulino.
2. L’articolo è in parte reperibile su internet: http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/dossier/Tempo%20libero


3. Cipolla, Per la scienza e per il Kaiser , pag. 9
4. Da wikipedia: seconda rivoluzione industriale: http://it.wikipedia.org/wiki/Seconda_rivoluzione_industriale
5. Cipolla, Per la scienza e per il Kaiser , pag. 10
6. Idem, 10
7. Idem, 10
9. Si possono consultare le tabelle X, XI e XII di questo sito http://cronologia.leonardo.it/invenzio/tab000.htm, per farsi un’idea dell’esplosività, in termini di scoperte ed invenzioni, della fase storica.
10. Si può consultare questo interessante articolo di Andrea Fais:

11. Lezioni sul capitalismo, di Gianfranco La Grassa, CLUEB, 199
12. Dall’articolo di Gianfranco La Grassa: “Crisi, sviluppo, trasformazione e trapasso d’epoca”, 2009
13. Guerra e mutamento nella politica internazionale, di Robert Gilpin, Il Mulino, 1989
14. Si veda questo breve video su You Tube: http://www.youtube.com/watch?v=gZULYbKlsmI
15. Da wikipedia: “Le fasi di trasformazione sotto la spinta di innovazioni maggiori vengono definite da Schumpeter di “distruzione creatrice”, alludendo al drastico processo selettivo che le contraddistingue, nel quale molte aziende spariscono, altre ne nascono, e altre si rafforzano.”
16. Dall’intervento del 2008: “Considerazioni intorno agli effetti della globalizzazione liberista sul sistema industriale italiano”, reperibile per intero al http://files.splinder.com/65f31d4220b30df7122968fa4d467db5.pdf
17. Il Miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni sessanta, di Marco Pivato Donzelli Editore, 201
19. Tratto da: “La Storia di Felice Ippolito e dei responsabili della fine del sogno nucleare italiano”, di Roberto Renzetti, http://www.fisicamente.net/SCI_SOC/index-1838.htm
20. Tratto da “Il Miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni sessanta”, “Il caso Olivetti”, di Marco Pivato.
21. Idem
22. Idem
23. Idem
24. Idem
25. Idem
26.Idem
27. Idem
28. Idem
30. Tratto da “Il Miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni sessanta”, “Il caso Mattei”, di Marco Pivato
31. Idem
35. Tratto da “Il Miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni sessanta”, “Il caso Mattei”, di Marco Pivato
36. Idem
37. Idem
39. Tratto da “Il Miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni sessanta”, “Il caso Marotta”, di Marco Pivato
40. Idem
41. Per approfondire la questione, rimandiamo al libro di Antonio Venier “Disastro di una nazione”, Edizioni di Ar, 2000; di cui si può consultare una parte al link: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=1604 ; o ai numerosi articoli pubblicati in proposito da Gianfranco La Grassa, come questo http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=33569 . Si guardino anche questi brevi filmati, che gettano luce sulla destabilizzazione subita dall’Italia nei primi anni novanta: http://www.youtube.com/watch?v=lD_qRPGf0ug http://www.youtube.com/watch?v=fKaO4BiAwOQ .
42. Per quanto riguarda il recente attacco a Finmeccanica, vi invitiamo a leggere il manifesto “Per la nostra sovranità, manifesto in difesa di Finmeccanica” redatto dal pensatoio culturale di “Conflitti e Strategie”: http://conflittiestrategie.splinder.com/post/23678884/per-la-nostra-sovranita-manifesto-in-difesa-di-finmeccanica .
44. Sono centinaia gli articoli a sostegno di questo strepitoso progresso scientifico cinese; rimandiamo solo all’ultimo che abbiamo consultato qualche giorno fa: “ http://www.bbc.co.uk/news/science-environment-12885271
45. Dall’articolo di Giulietto Chiesa: “Chi sarà il nuovo leader del Paese di Mezzo?
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Articolo originariamente pubblicato sulla Rivista di studi geopolitici Eurasia