giovedì 12 giugno 2014

Cameron vs Juncker: uno scontro geopolitico che coinvolge anche l’Italia





La lotta diplomatica che si sta svolgendo attorno alla nomina del prossimo presidente della Commissione Europea sta mettendo in luce le pesanti contraddizioni presenti all’interno delle nazioni aderenti all’Unione Europea. In particolare sta mostrando il ruolo anti-europeo svolto dalla Gran Bretagna. La posta in gioco è il futuro assetto della UE. Le ripercussioni di questo conflitto diplomatico interessano da vicino anche gli Stati Uniti, che si stanno attivando per indirizzare gli eventi in una direzione a loro favorevole. L’Italia si schiera con l’asse angloamericano.



La doppia funzione della Gran Bretagna nella UE
Gli inglesi sono da sempre feroci avversari dell’unità dell’Europa. Anche se cercano di mascherare la loro avversione alla UE dietro ad ingannevoli proclami, è ormai sempre più evidente come la partecipazione della Gran Bretagna alle istituzioni di Bruxelles e alla Banca Centrale Europea sia dettata esclusivamente dall’obiettivo di ostacolarne i processi decisionali ed aggregativi, un continuo e spossante “bastone fra le ruote” nei consessi e nelle decisioni chiave, il tutto con lo scopo di impedire all’Unione e ai Paesi dell’Eurozona di evolversi verso qualcosa di più serio, strutturato ed incisivo, diverso dall’attuale “pollaio nazionalistico” di stampo liberista ed atlantista che conosciamo.
Oltre a portare avanti i suoi interessi anti-europei, la Gran Bretagna funge da tradizionale “cavallo di Troia” americano nell’Unione. Operando in un’Europa già fortemente colonizzata dagli Stati Uniti, l’Inghilterra porta avanti la sua agenda in stretta sinergia con gli USA per assicurarsi il mantenimento dell’Unione negli stretti e sterili binari dell’ “euro-atlantismo”.
Gli USA sono pertanto interessati a spingere e a mantenere l’alleato inglese – che non ha mai dimostrato particolare voglia e solerzia nel farlo – all’interno dell’Europa, per poter controllare meglio il Continente, influenzarlo e dirigerne lo sviluppo secondo i propri desideri geopolitici e geoeconomici.
I continui veti, le continue pressioni inglesi per avere rappresentanze nei posti chiave delle istituzioni europee, hanno sempre trovato scarsa opposizione nei paesi del vecchio Continente sia perché consapevoli che dietro ai britannici c’era la spinta propulsiva degli statunitensi a cui difficilmente si sarebbe stati in grado di resistere, sia perchè i fattori esterni non imponevano di procedere più speditamente nella maggiore integrazione dell’Europa.
Ma nella trasformazione del mondo multipolare cui stiamo oggi assistendo, certe commedie e certi infingimenti, certe alchimie diplomatiche possibili in passato, cominciano ad essere insostenibili. Il caso Juncker ne è l’ultima, plateale, dimostrazione.



Contro Juncker una Gran Bretagna anti-democratica 
I cittadini europei sono andati a votare alle elezioni del 25 maggio con la convinzione che, votando per il PPE o il PSE, avrebbero automaticamente espresso la loro preferenza anche per il futuro candidato alla presidenza della Commissione Europea, centro di comando dell’Unione.
Mentre prima il presidente della Commissione era scelto nei bui corridori del Consiglio, ora per la prima volta, il “popolo europeo” ha avuto il potere di eleggerlo direttamente: Jean-Claude Juncker (per il PPE) o Martin Schulz (per il PSE). Un processo di democratizzazione voluto per avvicinare le masse europee agli iter decisionali dell’Unione e per far fronte alla crescita del cosiddetto e variegato “euroscetticismo”.
Con la maggioranza ottenuta dal PPE alle votazioni, sarebbe stato pertanto legittimo aspettarsi la naturale e consequenziale elezione di Juncker alla presidenza della Commissione; anche e soprattutto per rispettare la volontà popolare e le regole della democrazia. Ebbene gli inglesi, che da secoli vanno in giro per il mondo a dare patenti di democraticità a questo e a quel paese e a scatenare guerre in nome della democrazia in combutta con l’alleato USA, si sono impuntanti e non intendono riconoscere i poteri di nomina del Parlamento Europeo, e vorrebbero che il presidente continuasse ad essere nominato nei corridoi e nei ricatti incrociati del Consiglio Europeo, in modo palesemente antidemocratico.



Due idee di Europa a confronto
Oltre a questa clamorosa opposizione di metodo da parte di un paese che fa della “democrazia” un “mantra”, quello che non va giù agli inglesi è lo stesso Juncker e ciò che pensa e rappresenta. Già nel 2009 la Gran Bretagna si oppose alla sua nomina alla presidenza della commissione e riuscì ad impedirla.
Quest’anno la scena si ripete.
Il perché di questa feroce opposizione è facile: Juncker ha un’idea politica dell’Europa incompatibile con quella inglese.
L’ex primo ministro lussemburghese, cresciuto nel mito dell’Europa unita e federale, incardinata sul modello dell’“economia sociale di mercato”, spinge per una maggiore centralizzazione politica delle istituzioni di Bruxelles, trasformando la Commissione sempre di più in un vero e proprio governo continentale, unico modo per dotare la UE degli strumenti adeguati ed efficaci per intervenire ed agire; Cameron si fa invece paladino della tradizionale visione inglese (e statunitense) di un’Europa-mercato, iper-liberista, molle, aperta, fluida, priva di potenti strutture centrali e decisionali, abbastanza forte per rimanere in piedi e non collassare ma, nello stesso tempo, sempre debole, un “nano politico”, inconcludente e permeabile alle intromissioni esterne.
Juncker non è assolutamente un anti-americano o un anti-inglese, ma la sua impostazione “continentalista” può portare, col tempo, alla costituzione di un blocco europeo capace di impensierire i rivali geopolitici, compresi gli stessi USA, divenendo un polo di potenza in grado di staccarsi dall’influenza angloamericana, dalla NATO, e di guardare all’Est.
Le due differenti idee di Europa di Juncker e Cameron rispecchiano la loro rispettiva appartenenza a due differenti gruppi di interesse: da una parte le élite politico/economiche della “Vecchia Europa”, in particolare quelle franco-tedesche, portavoci di un “capitalismo renano” che dopo decenni di faticosa costruzione della UE, sente la inderogabile necessità – un’ultima chiamata – per far compiere un salto di qualità “centralista” alle istituzioni europee, dotandole di un vero potere decisionale in grado di agire efficacemente, anche per non venir travolti dall’“euroscetticismo”; dall’altra i gruppi di potere inglesi – del “capitalismo anglosassone” – che come i loro colleghi statunitensi, sono sempre spaventati dalla costituzione di un blocco europeo, anche se inizialmente non ostile e a parole amichevole (come nel caso di Juncker), alle porte di casa, con un potere centrale a Bruxelles su cui avrebbero gradualmente sempre meno influenza fino a rimanerne tagliati fuori, con pesanti contraccolpi economici, finanziari, politici e militari.



Gli USA in campo 
Lo scontro tra queste due visioni, tra questi due gruppi di potere, ormai sempre più improcrastinabile, è giunto ad un livello molto alto, di pubblico dominio, ciò che desta la preoccupazione anche degli USA, fortemente interessati a mantenere la Gran Bretagna – il proprio tradizionale “cavallo di Troia” – nella UE, per meglio controllarla e manipolarla in un momento delicatissimo dello scenario geopolitico e geoeconomico mondiale.
Gli Usa, infatti, sono nel pieno dispiegamento di una possente strategia in Europa che mira a due obiettivi: da una parte stanno cercando di staccare la UE e i paesi europei dalla Russia, incuneandosi e fomentando il conflitto tra Kiev e Mosca (dopo aver sostenuto il colpo di stato di Febbraio contro Yanukovich) per cercare di convincere gli europei ad adottare sempre più dure sanzioni economiche contro la Russia e per bloccare il South Stream; dall’altra, spingono per rinsaldare la presa angloamericana sul continente tramite il dispiegamento di nuove forze militari nell’Est e, soprattutto, tramite la stipula del trattato di libero scambio transatlantico TTIP/TAFTA, attualmente in fase di contrattazione ma che a breve dovrebbe giungere a conclusione. Un trattato che significherebbe l’inglobamento definitivo della UE nella sfera d’influenza statunitense (1) e che rappresenta un vero e proprio bivio per il nostro Continente (2).
Per ottenere questi due obiettivi gli USA hanno assoluto bisogno di non perdere, a lungo termine, il proprio “cavallo di Troia” britannico nella UE, e a stretto giro, di veder formata una Commissione Europea – che rimarrà in carica per 5 anni – il più possibile orientata verso l’atlantismo (euro-atlantica), con dei Ministri degli Esteri russofobici e filo-americani (polacchi, svedesi o inglesi per esempio) o con altri commissari che in altri posti chiave guardino al TTIP/TAFTA con benevolenza e che non abbiano alcuna ispirazione a mantenere il mercato europeo staccato da quello statunitense, tantomeno a cercare un’alleanza con quello russo o a voler mantenere l’Europa all’interno delle coordinate del “capitalismo renano” senza cedere alle sirene di quello anglosassone.
La nomina di Juncker collide con questi piani, sicuramente con quelli a lungo termine che mirano a mantenere la Gran Bretagna dentro la UE.
In questa partita diplomatica ancora aperta e che si gioca, tanto per cambiare, intorno all’ambiguità tedesca (ben incarnata dalla Merkel), torna utilissimo agli USA – e all’Inghilterra – la carta italiana, quell’Italia che tra mille equilibrismi ha sempre cercato di giostrarsi tra atlantismo (o “euroatlantismo”) ed europeismo, ma che negli ultimi tempi, in particolare sotto l’interminabile mandato di Giorgio Napolitano, sembra essersi completamente appiattita alle volontà statunitensi, abbracciando un “euro-atlantismo” profondamente contrario agli interessi europei ed italiani.



Il ruolo dell’Italia nella contesa
Renzi e Napolitano tornano pertanto utili a Washington su più fronti diplomatici. I più importanti sono due: da una parte, e a stretto giro, cercare di bloccare la nomina di Juncker spendendosi per trovare una mediazione con la Gran Bretagna, cosa che Renzi ha già fatto e sta facendo, per fare in modo che la Commissione sia guidata da uomini meno “federalisti” e con progetti meno ambiziosi e pericolosi – per gli angloamericani – di quelli del lussemburghese; dall’altra, con l’incipiente presidenza italiana della UE, spingere per la firma del trattato TTIP/TAFTA, e per la ricontrattazione del Fiscal Compact, cosa che sia Letta prima, e Renzi poi, hanno già cominciato a fare. Il tutto sotto l’attenta supervisione di Giorgio Napolitano, il reale interlocutore di Obama in Italia, che ha garantito la sua missione di coordinamento fino al 2015, quando la maggior parte dei giochi dovrebbero essersi conclusi e la situazione chiarificata in senso favorevole all’ “euro-atlantismo”. (...) Sarebbe quindi più appropriato che al posto del tanto decantato “europeismo”, Matteo Renzi e Giorgio Napolitano utilizzassero la parola “euro-atlantismo” per qualificare la loro strategia politica, anzi forse sarebbe meglio togliere anche la residua parola “euro” e tenere solo “atlantismo”, dato che con la firma del TTIP/TAFTA e con la permanenza della Gran Bretagna nella UE, non sarà possibile pensare all’Unione Europea se non come ad una appendice – senza sovranità politica, economica e militare – degli USA.
L’interesse italiano ed europeo (non “euro-atlantico”) sarebbe semmai quello di spingere la Gran Bretagna fuori dall’Unione e dalla BCE, potenziare e centralizzare quindi le istituzioni di Bruxelles attorno alla “Vecchia Europa”, con una Commissione meno “liberista” e più vicina ai modelli del “capitalismo renano”, respingendo infine il TTIP/TAFTA made in USA per rivolgersi verso i mercati della Russia e dei paesi BRICS.

Michele Franceschelli
NOTE:
1. Tafta: la fine dell’Europa
2. Si veda per esempio: L’Europa a un bivio: o l’accordo transatlantico o “Razvitie” con la Russia

Vedi anche: TTIP/Tafta: una “Nato economica” contro l’Eurasia

Articolo originariamente pubblicato sul giornale on-line 'Stato e Potenza'